Ieri ho fatto un giro a Firenze. Credo di non averla mai vista così deserta. L’aria che si respirava era surreale. Nessun brusio di voci per le strade, piazze vuote, locali vuoti. Mi sono sentita quasi in colpa, a passeggiare come se niente fosse. Come se niente fosse. Mi fermo un attimo a pensare. Non è così. Non è stato così. Sul treno per Firenze eravamo in pochissimi, tutti a distanza gli uni dagli altri. E tutti con il gel igienizzante per le mani tra le mani. A Firenze ho volontariamente scansato un gruppo numeroso di adolescenti in giro per la città con una guida turistica. Troppo vicini. Troppi. Troppo rischioso. Sono entrata in un negozio, molto piccolo. La commessa mi ha seguita da lontano, abbiamo parlato un po’, è stata molto gentile, sorridente, ma attenta a tenere le distanze. E anche io. Sono stata a mangiare in un ristorante giapponese del centro. Eravamo credo in 8 in tutto il locale, compresi i gestori, cameriere e cuoco. Alla fine del pranzo la proprietaria, italiana, si è sfogata, raccontandomi la sua ansia per il lavoro, in crisi come quello di molti operatori del settore. Nei suoi occhi c’era tanta tristezza, preoccupazione, e, cosa che mi ha colpito, quasi un segno di gratitudine e riconoscenza nei confronti di noi pochissimi che, nonostante tutto, siamo stati a mangiare fuori. Ci siamo salutate con un “in bocca al lupo per tutti”, e abbiamo ripreso la nostra giornata. Un caffè nei pressi del duomo, in un locale in cui si discuteva sul come e quanto pulire il piano di lavoro, secondo un paio di fogli di carta arrivati in quel momento dai “piani alti”. “Io per sicurezza lo pulisco 5 volte”. “Leggi qua”. “Questo è il disinfettante da utilizzare?”. Ci siamo seduti ad un tavolo, ma siamo stati pochissimo tempo. Troppo caldo. Troppo chiuso. Preferisco uscire all’aperto. Guarda Firenze, in una giornata così. La giornata ideale per visitare un museo? No. Il museo, no. Cercare di andare avanti e di vivere “normalmente” non significa essere incoscienti e ignorare le direttive che provengono da parte di chi sta cercando di fare il possibile per contenere i contagi. Ci sono, obiettivamente, situazioni più a rischio di altre. Il museo andrò a visitarlo un’altra volta. Così come ho accettato (vedrai! Per forza!) l’annullamento di un concerto al quale sarei dovuta andare con mio figlio. Mi girano, sì. Mi dispiace parecchio. Ma oh, è così. E c’è una ragione per la quale deve essere così. Questa ragione, però, non è la mortalità alla quale può portare l’infezione da coronavirus, sulla quale i titoli dei giornali puntavano fino a qualche giorno fa, e che ha generato panico ingiustificato in tutto il paese, provocando isterismi collettivi e comportamenti ingiustificati (vedi svuotare i supermercati…). La ragione è organizzativa. Non siamo ancora pronti per accogliere nei reparti le persone a rischio e che necessiterebbero di terapie mirate, qualora sviluppassero una polmonite da coronavirus. Polmonite dalla quale, non dimentichiamolo, si può guarire. Quindi, ok. Niente eventi collettivi, niente manifestazioni, niente posti affollati. Niente musei a Firenze, ieri. Una passeggiata in centro, un pranzo in un locale, caffè e rientro. Però, tanta tristezza. Per un paese che sta soffrendo. Per un silenzio surreale che non dimenticherò. Per una crisi che sta toccando tutti. Per un’atmosfera che è cambiata. Io, però, qualcosa di bello, in tutto questo, l’ho visto. Ho visto la voglia di non fermarsi, e di aiutarsi a vicenda in questo momento. L’ho vista nei passeggeri del treno che si disinfettavano le mani, nella commessa che ha tenuto le distanze, ma con il sorriso. Nelle bariste che facevano autoironia su quante volte l’una o l’altra erano già passate a pulire per terra o sul piano di lavoro. Questo, per me, è non fermarsi. Nel mio piccolo, sto cercando di farlo. Ma con responsabilità. E attenzione. Per me, e per gli altri. Diamoci una mano, in senso metaforico, e speriamo di uscire il prima possibile da tutto questo. Sono convinta ci ritroveremo diversi, migliori, e forse anche più responsabili.